eu su gabinettu....io sono un gabinetto!
Così, venticinque anni fa, mi urlò in faccia il signor N.
Lo chiameremo signor N. ma potremmo chiamarlo signore e
basta, come non fu chiamato per trent’anni.
Trent’anni passarono dentro le
fredde, ammuffite mura del manicomio di Reggio Calabria, non luogo dove la
sofferenza e l’indifferenza andavano a braccetto.
Dove ogni uomo, ogni donna,
ogni bambino ( si, venivano ricoverati anche molti bambini) si astraeva per
venti, trent’anni dalla vita ed entrava in un altro mondo.
Fatto di
indifferenza, sigarette e tozzi di pane ammuffito.
Eu su gabinettu, mi urlò in faccia il signor N. quando gli
chiesi che abito volesse indossare per andare a Messa.
Ma l’abito buono blu ed
elegante non può cancellare i trent’anni passati camminando a piedi nudi nel
piscio altrui.
L’abito buono non può cancellare, di colpo, le coperte ruvide e
pulciose nelle quali nascondersi, dentro le quali proteggersi dai propri deliri e
da quelli altrui.
Eu su gabinettu, diventò, per me, appena trentenne, una
poesia, dolce, dolorosa e intrisa nello stesso tempo di rabbia e passione per
l’impegno, la lotta, il cambiamento.
Adesso, molti anni, dopo, N. non c’è più, e neanche io.
Ma
vive nelle pieghe dei ricordi.
E bussa nelle serate di vento e memoria.