Sui fatti di Roma,
il dominio degli ultrà e la supervalutazione dei personaggi inquietanti che
adesso sono agli “onori “della cronaca, tanto si è parlato. Non è opportuno né
interessante per nessuno leggere il mio pensiero.
Ma da queste libere pagine vorrei ricordare il calcio, il mio calcio,
com’era e come non lo è stato più. Avevo ventidue anni e decisi di non giocare
più con gli adulti, con i coetanei, in tornei organizzati.
Violenza, acredine,
dissapori, malumori di profilo personale.
Non assisto ad una partita di
calcio, per scelta, dal 1985. A Melito, mancavano pochi minuti alla fine della
partita, ed un avversario s'infortuna. Vero o falso l'infortunio, non so. Ma il
calciatore ha commesso un grosso errore.
Si è infortunato proprio sotto la
gradinata degli
agguerriti tifosi melitesi.
Ad allora sputi, ingiurie, bottiglie di plastica,
schifezze varie proprio da gente mite, serena e diciamo anche, a volte,
vigliacca. La trasformazione che questi compaesani subirono, in tale occasione,
mi sconvolse.
Era troppo per chi
cerca nella palla rotonda un’occasione di svago.
Allora con altri dissidenti,
con i quali condividevo la gioia di stare insieme, formammo una squadretta che
sfidava altri come noi.
E ci divertimmo finché le vie della vita non ci
separarono.
E mi ricordo con
gioia quando, accompagnati da un tifo speciale, i miei ragazzini, ed a ventidue
anni avere dieci/dodici ragazzini non è da tutti (ma questa è un’altra storia,
e ve la racconterò dopo.) coniarono uno slogan: “olio, petrolio, ed acqua
minerale, per battere Alberti ci vuol la Nazionale!!! “
Diciamo anche
meno, molto meno, ci voleva per battermi, ma i ragazzini, i miei ragazzini, ai
margini della vita, di essa invece avevano capito tutto.
Avevano capito cos’era
il divertimento e cos’era la violenza. Che sono due cose distinte e separate.
Ma loro, l’abbiamo
scritto prima, sono e rimarranno un’altra storia.
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