lunedì 23 giugno 2014

il carro, l'amore e le catene....



Non era facile la vita nel paesello, tre le due guerre.
Fame, miseria e pidocchi la facevano da padrone. Non per tutti, naturalmente.
I signori, gli “gnuri”, non se la passavano mica male. Servitù e bella vita, feste e mangiate. Due volti della stessa umanità. Chi scalzo, chi con le scarpe.
Ieri, come oggi, sempre la stessa storia.
E fin qua tutto normale, nell’anormale andamento delle cose.
I problemi sorgono quando i due mondi, per qualche oscuro motivo, si mischiano. Diciamo, senza azzardo, si contaminano.
Questo accade, molto raramente, ma accade, attraverso l’amore.
La chiameremo Fedora, nome antico che tutto sommato per quei tempi era abbastanza usato.
Lo chiameremo Libero, con una concessione ad una grottesca ironia che scoprirà il suo volto beffardo in seguito, dopo poco.
Fedora, ricca, figlia di gnuri, e Libero, povero, figlio di massari, si innamorarono.
E vennero giù dolori. Pianti, botte e segregazioni come solo i gnuri, nobili a Messa e feroci nelle proprie stanze, sanno fare.
Libero viene allontanato, fatto picchiare. I suoi genitori vengono, come sul dirsi, richiamati….
Nulla. Niente da fare…
L’amore è amore. E sopravvive alla cattiveria. Ma cede alla lontananza, s’indebolisce, vacilla, poi riprende e rimane in piedi, ma solo nel cuore di Fedora e Libero.
Libero comincia a star male. Impazzisce, aggredisce i compaesani al minimo, come sul dirsi, sfottò.
Libero impazzisce e come tutti i folli a cavallo tra le due guerre viene portato in Manicomio, a Reggio Calabria.
Viene portato dai Carabinieri, in catene, sopra un carro trainato da due possenti buoi.
Mentre viene portato in Manicomio urla il suo dolore ed il suo amore. Urla alla luna ed al sole. Alla pioggia ed al sereno. Ed agli anni che passano.
E sono quaranta ed oltre, tra piscio e botte, sigarette ed indifferenza. Poi venne Basaglia e Libero fu libero.
E Fedora?
Fiera e serrata come una stanza segreta, non si sposò mai, né amò mai nessuno.
Cambia la scena, e ci troviamo negli anni ottanta, verso la fine. Libero, finalmente libero, tornò al paesello, ormai vecchio di anni e deliri.
Non era più aggressivo, ma predicava al sole ad alla luna la sua storia, inventandola di volta in volta, o rimandendo in accorto silenzio.
Il paese è piccolo e la piazza anche. Ed una mattina di primavera avvenne l’incontro.
Da soli, quarantacinque anni dopo, scostarono la povere del tempo e del dolore, e pacatamente, senilmente, si riconobbero.
Libero e Fedora si salutarono di fronte ad un paese che incredulo guardava la gnura ed il pazzo salutarsi in piazza.
Si salutarono con un timido bacio. Si salutarono e basta.
Quel vecchio cadente con i calzoni fin troppo corti ed il cappotto liso e la signorina Fedora, con la veletta che conobbe tempi migliori, ed i guanti a coprire le mani.
Libero e Fedora, per sempre. Ognuno prese la sua strada, verso l’eternità.
Libero morì un anno dopo, amato e rispettato da tutti gli operatori della Comunità che lo accolse dopo quarantacinque anni di manicomio.
Fedora morì quasi centenaria, tra ricordi e vecchi merletti.
L’amore, eterno, sopravvisse anche al macabro carro trainato da possenti buoi.
Ed alle catene del tempo....

venerdì 20 giugno 2014

Ofelia



Quando si lotta per qualcosa, si lotta inevitabilmente per qualcuno. Dodici anni fa, in un piccolo paese, viveva una ragazza che per muoversi utilizzava una carrozzina. Era diffidente, restia ed incontrare gente, ad uscire, a vivere. Era restia a tutto ciò che significava relazioni umane. Forse, anzi sicuramente, aveva le sue ragioni. A vent’anni vivere in carrozzina non deve essere una cosa piacevole. La incontrai e mi sputò addosso la sua rabbia, il suo rancore verso la vita che le aveva riservato un destino sicuramente non piacevole.
Le proposi, con la mia faccia tosta, e soprattutto resistendo alle sue motivate acidità, di entrare in un programma che prevedeva l’incontro con un operatore, e da lì uscite sul territorio. 
Ofelia, che non si chiama Ofelia, ma che io chiamerò così, accettò.
Sono stato un buon venditore.
Ma accettò con riserva. Mi chiese di fare una promessa. Una promessa tosta, molto tosta. Mi chiese di promettere che il servizio, che nel frattempo le cominciava a piacere, non sarebbe finito mai. 
Era, veramente, una promessa tosta. Alla fine, dopo lunghe contrattazioni, le promisi che avrei fatto il possibile e l’impossibile per far durare questo servizio.
Non fu così. I soldi finirono, e a nulla valsero le mie questue in giro per i Comuni, per il comune di Ofelia, per la Regione, per la Provincia, per il Mondo.
Per la mia coscienza.
A nulla valsero i miei tentativi di attivare volontari. Nulla, niente. Zero.
Il servizio finì ed Ofelia fu di nuovo sola. Fu sola dopo aver vissuto un anno di affetto e relazioni. Dopo aver vissuto un anno nuovo. Un anno finito troppo presto.
Grazie per averti avuto, anche se ce lo hai tolto…spesso si legge. Ma non è così, sempre.
Ofelia, fu sola. Io fui in parte bugiardo, ogni tanto dico a me stesso. In parte, perché lottai, Dio solo sa quanto lottai…ma Ofelia fu sola lo stesso, ed io fui bugiardo.
Questo è quello che, purtroppo, conta.
Ogni tanto passo dalla casa di Ofelia. Di fronte al mare, in faccia al tramonto, nei dolci pomeriggi di primavera, quando tutto sembra più bello, anche la vita in carrozzina. 
Soprattutto per chi cammina. 
Non ebbi mai il coraggio di entrare, di bussare e dire a sua madre, sofferente madonna, che sono quello che vendeva servizi e prometteva vittorie.
Ancora oggi, ogni tanto, come stasera, penso ad Ofelia, ed allora l’impegno aumenta, la rabbia monta, il disprezzo per chi ignora i diritti della gente assume toni forse inadeguati, forse esagerati.
Ululo alla luna, ed essa non risponde. ( ed allora scrivo)
Ofelia non lo saprà mai, ma io continuo, dopo dodici anni, ad ululare anche per lei.
O forse per me…chissà.

mercoledì 18 giugno 2014

il profumo dell'ultimo giorno di Scuola.....

L’ultimo giorno di scuola, nell’80, era come tutti gli ultimi giorni di scuola che si sarebbero susseguiti negli anni a venire.
Un’aria triste e nello stesso tempo eccitata, frizzante, densa di futuro si respirava tra i banchi, semivuoti, e tra noi compagni, smarriti nella giovanile spacconeria.
Il passato fatto di amori soltanto immaginati, di jeans sdruciti e di gruppi accoglienti e crudeli nello stesso tempo era già dietro.
Come dietro di noi erano già le prime assemblee d’istituto, i bianchi, rossi e neri, i cortei per essere semplicemente ascoltati.
E la vecchia Simca 1000 verde bottiglia che vorrei  poter guidare ancora una volta….
Le feste del liceo, i lenti ed il profumo di lei. La lei di tutti noi….
Il durante erano solo e soltanto gli esami.
Andar bene significava il futuro, incerto, in giacca e cravatta o in divisa.
Andar male significava tornare nel liquido amniotico del Liceo, magari con la stelletta fascinosa e maledetta dei ripetenti.
Ma la vita non è così semplice, ti avvolge, t’incarta, ti spinge, ti governa. Fa per te mentre pensi di fare per lei.
Andò bene, compagni dell’80. Andò bene tra voglia di mare e nostalgia.
I ragazzi insicuri di qualche anno prima, con gli abiti fuori moda ed i libri nella cartella, prima delle cinghie, si dovevano trasformare per forza in uomini.
Le ali cadevano per far posto ai piedi, rigorosamente per terra. Mai sulle nuvole.
Ragazzi, il profumo dell’ultimo giorno di scuola non lo sentirete più nella vita.
Tenetevelo stretto nei vostri ricordi, imbottigliatelo e liberatelo sulla via del tramonto, quando la vita comincia, naturalmente, a profumare di poco.