sabato 14 giugno 2014

il bianco ed il nero......



Le prime spiagge, i primi venditori.
Francamente mi viene difficile sentire disturbo nelle proposte a volte pittoresche degli ambulanti. Provo rammarico nel vederli curvi sotto il peso della merce da vendere, sudati, ansanti e violentati da un sole impietoso.
Mi capita, a volte, di dare dell’acqua, indispensabile per proseguire il cammino lungo diversi chilometri.
È la vita, bellezza. Infame ed ingrata vita.
Ma certe volte qualcosa di strano avviene e ti lascia il segno. C’è poesia nella vita, lo si sa….se lo si vuol sapere.
Oggi, sole a picco, si avvicina l’uomo nero, ma proprio nero, come solo i senegalesi lo sanno essere.
Due smancerie da venditore europeo e subito a proporre un paio di libri sul tema. Gli piace vincere facile, al fratello senegalese. Lo scorso anno ne comprai a quantità industriale. Belli, specie le poesie. Crudi, specie il racconto delle traversate.
Riuscii a trovare due che non avevo ancora letto. E che misi nello zaino dove tengo l’attrezzatura da spiaggia. Poca roba, ma utile.
Il fratello senegalese, felice della vendita, gongola soddisfatto, ammicca, batte il cinque. È allegro e contagia.
Allora, preso da una tignoseria puramente locale, contrattai anch’io….
“ ho preso due libri, amico, ma almeno un braccialetto me lo regali? “
Vite in saldo sulla spiaggia di Melito.
Al che il fratello lontano si toglie un braccialetto di perline di plastica dal polso, dal suo polso. Perline bianche alternate a perline nere…..
“ ti do il mio, perché siamo bianchi e siamo neri, ma il nostro cuore è uguale.
Indossato il braccialetto dopo l’ultimo batti cinque con inchino finale, commosso per l’accaduto, andai in acqua guardando l’orizzonte.
E verso l’orizzonte nuotai con al polso un braccialetto bianco e nero donato con il cuore.


venerdì 6 giugno 2014

Palizzi è l'odore del mare....



I ricordi non sono mai traducibili in fatti realmente accaduti. Nel tempo essi prendono contorni diversi, magici, legati allo stato d’animo del momento, vuoi di nostalgia, o di rimpianto, o, a volte, di rabbia. I ricordi sono, diciamo, magie mutevoli. Irreale realtà. Ma in fondo sono fatti modificati dal corso della vita, ed avvolti dalle scomposte nuvole che sono i nostri pensieri. Palizzi è esattamente il padre di tutti i ricordi. A volte penso di aver immaginato tutto, e che Palizzi non sia mai esistito. Ed è per questo che non apro con la consueta descrizione del ridente paesino in riva al mare, tra canneti e scogli, con tramonti indimenticabili. Infatti, il primo ricordo è un tramonto. Al mare. Tra gli scogli, giganti di un tempo immemore a difesa dell’oro blu. L’odore è un ricordo. Un ricordo che rimane accantonato nella memoria fin quando un altro odore, simile, non te lo richiama. È così l’odore delle alghe a fine giornata, nei pomeriggi estivi quando il mare è quasi dorato e si prepara per il grande buio che fa paura. Palizzi era anche una casa, o una casa era Palizzi, non lo saprò mai. La chiameremo la casa dei buganvillea. Ancora oggi ci passo, la fotografo, la guardo, la rimpiango. Una casa che ricordo, anzi, che immagino. Ricordo ed immaginazione si accavallano. Una grande palma, e la terrazza, gigantesca per un bambino di sei anni, da percorrere in bici. Rassicurante vicino la porta di casa, paurosa vicino alla scala in pietra che portava al cancello, e poi giù, alla strada. Una terrazza da percorrere in bici. Una terrazza che guardava al mare, ai canneti, alla ferrovia. Paesaggio ionico che a guardalo, ancora oggi, ti rende polvere del creato. Una casa vecchia, forse antica. Con letti sepolti da coperte e materassi infossati, nei quali ripararsi dai timori notturni. Una cucina in pietra, dai mille rumori come se alla notte banchettassero i fantasmi. Ma i ricordi, altro non sono che fantasmi. Palizzi era il mare, il mattatoio e la casa del tedesco. Forse mai esistito. Forse sognato. Palizzi era il profumo dei campi, nelle serate primaverili, appena dietro la casa. Era il profumo dei campi sotto la pioggia autunnale.
Ma che profumo ha l’infanzia? Forse di paura, di scontato rimpianto, di voglia di crescere e diventare adulti, presto, troppo presto.
Palizzi erano le stanze misteriose e buie degli zii. L’aereo in legno e l’uovo per cucire. Il mondo che finiva alle curve di Bova. Il mondo che iniziava e finiva sotto la grande palma, dove morivano gli uccellini cadendo dal nodo.
Palizzi era e rimarrà sempre, troppo spesso, l’odore del mare.

domenica 1 giugno 2014

la curva ( gli anni strani)



Ancora oggi, quando passo da quella curva, penso sia la curva della mia vita.
Trent’anni fa, forse più. Diciamo la verità, trentadue. Un luogo, una scelta, Mirco, Marco e Pietro l’Orbo. Li chiameremo così quei bambini.
Ed io, bambino come loro, un po’ meno per la verità, a condividere la loro vita, ed a decidere la mia, di vita.
Mirco, Marco e Pietro l’Orbo non erano bambini come gli altri.
Erano figli della malapianta, che i propri innocenti tentacoli, a volte, li reclamava. Ed io, bambino come loro, forse un po’ meno, ci giocavo su. Un paio di volte, forse, anche più, ci provò, la malapianta.
Non ci riuscì, non so perché, non ricordo, ero troppo giovane.
Alcune volte anche con me, la malapianta del disimpegno, del pentimento, dei dubbi, ci provava.
Ma chi cazzo me l’ha fatta fare di stare qui tra mutande sporche di cacca infantile, ma sempre cacca era, urla e centinaia di pagine sgrammaticate da correggere.
Non sapevo, l’avrei saputo, dopo, che erano le pagine della mia vita.
E con più forza, urlavo a me stesso, ma chi cazzo te l’ha fatta fare! E lo urlavo proprio in quella curva.
Una curva larga, da percorrere veloce, con la mia utilitaria, io, Mirco, Marco e Pietro L’Orbo, verso la Scuola, ogni mattina presto, puntuali, a contrastare l’indegna origine con la cultura.
Ma ogni curva, anzi, quella curva, era un incognita.
Immaginavo picciotti con la coppola, i baffi e la lupara appena dietro, nascosti tra i cespugli, pronti a balzare e sparare contro tutti e quattro, io, Mirco, Marco e Pietro L’Orbo.
Ogni curva era un dubbio. Per il viaggio molto breve, per la verità, verso la Scuola. E per la mia vita e le mie scelte.
E per i miei strani, contrari, inusuali ventun anni.
Non ci fu mai nessuno dietro quella curva. Ma Mirco, Marco e Pietro L’Orbo, dopo anni di normalità, vennero risucchiati lo stesso dalle spire della malapianta, che non ebbe bisogno di coppola e lupara.
Ma dietro quella curva ci stava la vita che lasciavo, comoda e pulita, “per bene”, garantita.
E ci stavano i miei successivi trentadue anni sporchi di vita, fallimento e lotta, che chiameremo, adesso, gli anni strani…..

sabato 24 maggio 2014

" eu su gabinettu" ......



eu su gabinettu....io sono un gabinetto!


Così, venticinque anni fa, mi urlò in faccia il signor N.
Lo chiameremo signor N. ma potremmo chiamarlo signore e basta, come non fu chiamato per trent’anni. 
Trent’anni passarono dentro le fredde, ammuffite mura del manicomio di Reggio Calabria, non luogo dove la sofferenza e l’indifferenza andavano a braccetto. 
Dove ogni uomo, ogni donna, ogni bambino ( si, venivano ricoverati anche molti bambini) si astraeva per venti, trent’anni dalla vita ed entrava in un altro mondo. 
Fatto di indifferenza, sigarette e tozzi di pane ammuffito.
Eu su gabinettu, mi urlò in faccia il signor N. quando gli chiesi che abito volesse indossare per andare a Messa. 
Ma l’abito buono blu ed elegante non può cancellare i trent’anni passati camminando a piedi nudi nel piscio altrui.
L’abito buono non può cancellare, di colpo, le coperte ruvide e pulciose nelle quali nascondersi, dentro le quali proteggersi dai propri deliri e da quelli altrui.
Eu su gabinettu, diventò, per me, appena trentenne, una poesia, dolce, dolorosa e intrisa nello stesso tempo di rabbia e passione per l’impegno, la lotta, il cambiamento.
Adesso, molti anni, dopo, N. non c’è più, e neanche io. 
Ma vive nelle pieghe dei ricordi. 
E bussa nelle serate di vento e memoria.