Non era facile la vita nel paesello, tre le due
guerre.
Fame, miseria e pidocchi la facevano da padrone. Non
per tutti, naturalmente.
I signori, gli “gnuri”, non se la passavano mica
male. Servitù e bella vita, feste e mangiate. Due volti della stessa umanità.
Chi scalzo, chi con le scarpe.
Ieri, come oggi, sempre la stessa storia.
E fin qua tutto normale, nell’anormale andamento
delle cose.
I problemi sorgono quando i due mondi, per qualche
oscuro motivo, si mischiano. Diciamo, senza azzardo, si contaminano.
Questo accade, molto raramente, ma accade,
attraverso l’amore.
La chiameremo Fedora, nome antico che tutto sommato
per quei tempi era abbastanza usato.
Lo chiameremo Libero, con una concessione ad una
grottesca ironia che scoprirà il suo volto beffardo in seguito, dopo poco.
Fedora, ricca, figlia di gnuri, e Libero, povero,
figlio di massari, si innamorarono.
E vennero giù dolori. Pianti, botte e segregazioni
come solo i gnuri, nobili a Messa e feroci nelle proprie stanze, sanno fare.
Libero viene allontanato, fatto picchiare. I suoi
genitori vengono, come sul dirsi, richiamati….
Nulla. Niente da fare…
L’amore è amore. E sopravvive alla cattiveria. Ma
cede alla lontananza, s’indebolisce, vacilla, poi riprende e rimane in piedi,
ma solo nel cuore di Fedora e Libero.
Libero comincia a star male. Impazzisce, aggredisce
i compaesani al minimo, come sul dirsi, sfottò.
Libero impazzisce e come tutti i folli a cavallo tra
le due guerre viene portato in Manicomio, a Reggio Calabria.
Viene portato dai Carabinieri, in catene, sopra un
carro trainato da due possenti buoi.
Mentre viene portato in Manicomio urla il suo dolore
ed il suo amore. Urla alla luna ed al sole. Alla pioggia ed al sereno. Ed agli
anni che passano.
E sono quaranta ed oltre, tra piscio e botte,
sigarette ed indifferenza. Poi venne Basaglia e Libero fu libero.
E Fedora?
Fiera e serrata come una stanza segreta, non si
sposò mai, né amò mai nessuno.
Cambia la scena, e ci troviamo negli anni ottanta,
verso la fine. Libero, finalmente libero, tornò al paesello, ormai vecchio di
anni e deliri.
Non era più aggressivo, ma predicava al sole ad alla
luna la sua storia, inventandola di volta in volta, o rimandendo in accorto
silenzio.
Il paese è piccolo e la piazza anche. Ed una mattina
di primavera avvenne l’incontro.
Da soli, quarantacinque anni dopo, scostarono la
povere del tempo e del dolore, e pacatamente, senilmente, si riconobbero.
Libero e Fedora si salutarono di fronte ad un paese
che incredulo guardava la gnura ed il pazzo salutarsi in piazza.
Si salutarono con un timido bacio. Si salutarono e
basta.
Quel vecchio cadente con i calzoni fin troppo corti
ed il cappotto liso e la signorina Fedora, con la veletta che conobbe tempi
migliori, ed i guanti a coprire le mani.
Libero e Fedora, per sempre. Ognuno prese la sua
strada, verso l’eternità.
Libero morì un anno dopo, amato e rispettato da
tutti gli operatori della Comunità che lo accolse dopo quarantacinque anni di
manicomio.
Fedora morì quasi centenaria, tra ricordi e vecchi
merletti.
L’amore, eterno, sopravvisse anche al macabro carro
trainato da possenti buoi.
Ed alle catene del tempo....